Il DDL Gelmini tenta di riformare l’università italiana in modo profondo e tutt’altro che graduale. Propone una rivoluzione dell’apparato pubblico come forse poche volte si è visto fare prima. Qui vorrei concentrarmi su come concretamente questa riforma si propone di modificare la vita dei giovani che vivono l’Università Italiana, anche per chiarire le motivazioni di un movimento di protesta che vede come protagonisti proprio i giovani, ovvero studenti, dottorandi e ricercatori precari.

Un’immagine della protesta di fine novembre a Roma.
Una considerazione di carattere generale è comunque d’obbligo: appare evidente che questa riforma, nonostante tutta la sua potenza innovatrice, non è accompagnata da un capitolo di spesa: è l’ennesima riforma a costo zero. Anzi sottozero, perché non dobbiamo dimenticare che i tremendi tagli ai fondi universitari della Legge 133 stanno ancora, e sempre più pesantemente, vessando i nostri atenei. Quindi anche solo a un’analisi superficiale è evidente l’inopportunità di stravolgere un sistema in questo modo: il tanto abusato concetto di valorizzazione del merito, ripetuto infinite volte nel DDL, non può davvero venir applicato senza uno stanziamento di risorse.
Diritto allo studio e dottorati di ricerca
Tornando ai giovani studenti, lo stravolgimento più grande riguarda il concetto di diritto allo studio. In sostanza l’idea è di sostituire le attuali borse di studio con i prestiti d’onore, ovvero dei prestiti erogati dall’università da restituire una volta terminati gli studi. In pratica il concetto costituzionale per cui è lo Stato che provvede all’istruzione dei suoi giovani meritevoli ma non abbienti viene scardinato. Gli studenti costretti ad accedere ai prestiti d’onore avrebbero quindi un debito di partenza all’ingresso nel mondo del lavoro. In più andrebbe anche considerato che, come l’America ci ha insegnato, affidarsi troppo al sistema del debito può portare a conseguenza disastrose.
Del dottorato di ricerca, il DDL si occupa solo in un punto, con un cambiamento peggiorativo rispetto alle condizioni attuali. Ricordiamo che oggi solo la metà dei dottorandi delle università italiane percepisce una borsa di studio, mentre i restanti lavorano a titolo gratuito. La soglia dei dottorandi senza borsa è stabilita per legge. Il DDL elimina proprio questa soglia, lasciando alle università la libertà di bandire un numero qualsiasi di posti di dottorato senza borsa. Ribadendo la contrarietà a tutte le prestazioni lavorative a titolo gratuito, non si vede come questo provvedimento possa promuovere il merito, soprattutto se parliamo del più alto grado di formazione che lo Stato Italiano fornisce ai suoi studenti.
Per chi vorrà inserirsi nel mondo della ricerca una volta conseguito il dottorato, il futuro sarà caratterizzato da
un massimo di 4 anni di assegni di ricerca o contratti precari in genere;
3 + 3 anni di contratti da ricercatore a tempo determinato.
Alla fine di questo periodo, che può dunque durare fino a 10 anni, il ricercatore potrà raggiungere una posizione strutturata all’interno dell’università a due condizioni:
che il suo lavoro durante il contratto da ricercatore a tempo determinato sia stato valutato positivamente;
che ci siano dei finanziamenti disponibili.
Il grande problema sorge proprio nel caso in cui i fondi non siano a disposizione. A questo punto il ricercatore non avrà più diritto ad alcun contratto, neanche di tipo precario, all’interno dell’Università Italiana e si dovrà accontentare di qualche punto di curriculum in più da spendere magari nei concorsi scolastici, che come sappiamo non sono certo all’ordine del giorno.
Questa è la norma più aberrante del DDL: davvero non si capisce come un ricercatore precario, dopo aver conseguito laurea, dottorato e anche quattro anni di contratti post-doc, all’età di circa 32-33 anni (stima media), possa decidere di accettare un contratto come ricercatore a tempo determinato di ben sei anni, con la consapevolezza che, se anche il suo lavoro fosse valutato positivamente, dovrebbe sperare in una legge finanziaria clemente.
In questi giorni si è parlato tanto di ricercatori (con contratti a tempo indeterminato) che hanno protestato non facendo più lezione e di rettori che hanno minacciato di non far partire l’anno accademico per mancanza di fondi. Probabilmente, però, i danni più gravi derivanti da questa riforma si ripercuoteranno su studenti e precari. Un ritornello che da un po’ di anni si ascolta davvero troppo spesso.