Probabilmente la prima lezione di fisica della materia che abbiamo ricevuto a scuola consisteva nella classificazione della materia in tre stati: solido, liquido e gassoso. Sul momento questa spiegazione ci sarà sembrata convincente ma, al suono della campanella e presa la merenda dallo zaino, ci siamo trovati di fronte al nostro primo problema di fisica: in quale categoria rientrano il burro e la marmellata che ricoprono il panino della ricreazione? A pensarci bene non sono volatili come i gas, non fluiscono come i liquidi e si spalmano un po’ troppo facilmente per essere dei solidi. Tornati a casa ci saranno venuti molti altri dubbi: la colla e la plastilina nella stanza dei giochi, la maionese e la gelatina in cucina. Tutti questi strani materiali, però, qualcosa in comune ce l’hanno: sono soffici e così non ci vuole molta forza per deformarli. Ragion per cui hanno trovato vasta diffusione nella nostra vita quotidiana, permettendoci di spalmare il nostro solido preferito sul pane senza dover accendere l’altoforno.

Figura 1 – Realizzazione sperimentale di un sistema di particelle patchy bifunzionali e trifunzionali. I siti funzionalizzati, le patch, sono visualizzate in rosa, mentre la superficie bianca non è attiva. Da [1].
Siti funzionalizzati
Per particelle patchy si intendono tutte quelle particelle che interagiscono tra di loro mediante alcuni siti funzionalizzati sulla loro superficie, le cosiddette patch. Il numero di patch su ciascuna particella si chiama valenza. Quando la patch di una particella è sufficientemente vicina alla patch di una seconda particella, si attiva un legame di tipo attrattivo tra le due particelle. Cioè le patch si attraggono tra di loro e permettono alle particelle di formare una rete di legami. Poiché i legami sono sempre mediati dalle patch, queste interazioni si definiscono interazioni direzionali, cioè sono possibili solo nelle direzioni individuate dai siti attivi. È proprio la presenza delle interazioni direzionali a conferire alle particelle patchy le loro peculiari proprietà.
Data la generalità della definizione, molti sistemi possono considerarsi patchy: basti pensare alle macromolecole, come le proteine, che sono caratterizzate dalla presenza di diversi gruppi funzionali sulla loro superficie che ne determinano in modo quasi unico le caratteristiche chimiche. Nonostante la generalità del modello ci concentreremo, per semplicità, su particelle sferiche e con i siti attivi ordinati geometricamente sulla superficie, come mostrato in Figura 1 per particelle con valenza due e tre.
Colloidi
Le particelle patchy sono innanzitutto delle particelle colloidali. Per colloidi si intendono tutte quelle particelle mesoscopiche, cioè con dimensioni che vanno dal nm al μm, disperse in un solvente costituito da particelle di dimensioni minori. Sia le particelle colloidali che il solvente possono trovarsi in qualunque stato della materia. Esempi sono il fumo, dispersione di particelle solide (le ceneri) in gas (l’aria); il latte, una dispersione colloidale di particelle liquide (il grasso) all’interno di un altro liquido; il poliuretano, un gas intrappolato in un solido. Per le nostre particelle patchy ci riferiremo sempre a particelle solide disperse in un liquido (solitamente acqua). La fabbricazione di questi colloidi è tutt’ora oggetto di intensa ricerca e diventa sempre più sofisticata. Tra le tante tecniche, la più semplice consiste nel disperdere in acqua una miscela di particelle di silica e polistirene, che vengono intrappolate da speciali emulsioni che permettono l’aggregazione delle particelle in forme geometriche regolari e perfettamente riproducibili. Una volta realizzate le particelle, è possibile funzionalizzarne la superficie in modo tale da rendere le patch attrattive, ad esempio rivestendole di molecole chimicamente complementari, come brevi sequenze di DNA.
I colloidi sono sostanzialmente atomi di grosse dimensioni (da dieci a diecimila volte il diametro medio di un atomo) e questa differenza produce grandi vantaggi. Innanzitutto hanno dimensioni comparabili alla lunghezza d’onda della luce visibile e ciò li rende facilmente studiabili mediante apparecchiature ottiche. Inoltre, mentre le interazioni nei sistemi atomici sono fissate dalla struttura elettronica e non possono essere modificate dall’esterno, con i colloidi si ha la possibilità di cambiare in modo sensibile l’interazione, ad esempio cambiando la qualità del solvente, la quantità di sale disciolto o la temperatura. Le maggiori dimensioni dei colloidi sono proprio le responsabili della sofficità di questi materiali: immaginando di confrontare tra loro un solido atomico con uno colloidale, il volume della cella elementare è 109 – 1012 volte più grande nel secondo caso, il che porta a moduli elastici piccoli e quindi a una grande facilità nella deformazione. Ma i colloidi sono ancora sufficientemente piccoli da risentire delle fluttuazioni termiche, il che rende possibile l’applicazione di quella branca della fisica chiamata meccanica statistica, già applicata con successo ai sistemi atomici e molecolari.
Quindi, se i colloidi possono essere visti come delle controparti su larga scala dei sistemi atomici, le particelle patchy si possono considerare le controparti dei sistemi molecolari. Le loro interazioni direzionali permettono infatti di assemblare specifiche strutture a partire dalle informazioni codificate nel numero e tipo di patch. Vediamo qui di seguito due esempi notevoli.
Polimeri
La Figura 2 mostra cosa succede a una miscela di particelle patchy, come quelle rappresentate in Figura 1, quando viene abbassata la temperatura. Le particelle cominciano a legarsi tra di loro: le particelle bifunzionali formano catene e le particelle trifunzionali costituiscono le diramazioni che collegano tra loro le varie catene. Più è bassa la temperatura e più la lunghezza media delle catene aumenta, finché le particelle non arrivano ad appartenere tutte a un unica rete che pervade il sistema. In Figura 2 le diverse catene sono rappresentate con colori diversi e alla temperatura più bassa si può notare come quasi tutte le particelle facciano parte di un unico network.
Quello che abbiamo appena descritto è un processo di formazione di polimeri. Per polimeri si intendono infatti quei sistemi in cui le unità di base, i monomeri, sono uniti a catena mediante legami. Si tratta quindi di materiali le cui unità costitutive non sono particelle sferiche ma catene, come ad esempio per la plastica e la gomma. Questa particolare natura dei materiali polimerici ne determina le straordinarie proprietà fisiche, come l’elevata elasticità, che derivano dalla loro grande entropia configurazionale, cioè dal grande numero di stati che le catene possono assumere.
Man mano che la temperatura si abbassa, i legami tra le particelle patchy diventano sempre più forti fino a quando non è più possibile, nei tempi sperimentali, osservare alcuna apertura dei legami nel network. In questo caso si dice che il sistema subisce una transizione dinamica, in cui il moto delle particelle è vincolato a rispettare la topologia del network. In altre parole il sistema subisce un processo di gelazione fisica: lo stato di gel è caratterizzato da una struttura interconnessa (il network) di particelle patchy, che conferisce al sistema proprietà intermedie tra quelle di un solido e di un liquido. Il gel si comporta come un liquido perché è composto per la maggior parte da fluido che può fluire attraverso il network e come un solido perché può sostenere sforzi di taglio e reagire elasticamente alle deformazioni.

Figura 2 – Un sistema di particelle patchy al variare della temperatura. Raffreddandolo (verso destra) le particelle patchy iniziano a polimerizzare, finché non formano un unico network che pervade il sistema.
Le particelle patchy costituiscono quindi un modello ideale per studiare i processi di gelazione a basse densità e come banco di prova per molte teorie sviluppate nel contesto dei sistemi fuori dall’equilibrio.
Sistemi anfifilici
Consideriamo il caso di particelle patchy di valenza unitaria, con l’unica patch che riveste la metà della superficie della particella. Le particelle così ottenute si chiamano anche particelle Janus (da Giano, la divinità bicefala dei romani) perché hanno la superficie diversamente funzionalizzata nei due emisferi. Come si può vedere dalla Figura 3, queste particelle danno vita a strutture molto complesse. A bassa temperatura le particelle Janus si auto-assemblano in aggregati stabili di forma sferica: le micelle. Le micelle sono composte da un singolo strato di particelle Janus che orientano la loro parte attrattiva all’interno dell’aggregato (a), oppure da un doppio strato di particelle con la parte repulsiva sempre orientata all’esterno e all’interno della membrana (b).

Figura 3 – Micelle di particelle Janus: (a) singolo strato, (b) doppio strato. Da [2].
Oltre la Soft Matter
Abbiamo visto che le particelle patchy costituiscono un modello ideale per lo studio dei fenomeni fisici che avvengono nei sistemi soffici. Ma la loro importanza e generalità si estende a tutti i sistemi in cui un ruolo predominante è giocato dalla direzionalità delle interazioni. È il caso ad esempio dei sistemi magnetici, come i fluidi dipolari, in cui le particelle tendono ad allineare i loro momenti magnetici. Le predizioni possibili con i sistemi patchy trovano anche riscontro nella fisica biologica, soprattutto per quanto riguarda le interazioni fra proteine. E sicuramente molti altri ambiti di applicazione aspettano di essere svelati.